Nerviano Storica Pannello 7

Chiesa del Lazzaretto (Foto anni 40)

In questa foto intorno scattata intorno agli anni 40  fa spicco il ponte e il diverso corso dell’Olona, chiuso nel 1956 con la deviazione del fiume nella sua posizione attuale a sinistra del fronte di entrata della chiesa.

La storia di questa chiesa, come dice il nome, va collegata alla peste del 1630 di manzoniana memoria. Probabilmente in questo luogo venivano già sepolte le vittime della precedente epidemia di peste, quella del 1570 (come documentato da scambi di lettere tra il prevosto e il priore circa il terreno che era di proprietà del monastero degli Olivetani), e ancora oltre un secolo dopo il flagello, nella relazione per la visita pastorale del Cardinale Pozzobonelli del1761 è riportata la descrizione di un cimitero posto avanti alla chiesa.

Nel 1630 la situazione era veramente drammatica in tutto il Ducato di Milano e quindi l’amministrazione comunale chiese l’autorizzazione ai proprietari di questo terreno al fine di realizzare un “ospedale” (in realtà delle povere capanne) per accogliere appunto i malati del morbo e seppellirvi poi le vittime.

Sappiamo dai documenti di archivio che il morbo arrivò nel nostro paese il giorno 25 giugno del 1630 per terminare la sua virulenza nel 1631, dimezzando la popolazione del borgo nervianese, che contava nel 1621 1745 abitanti, ridotti a 939 nel 1631.

Successivamente – attorno al 1656 – si iniziò ad erigere un luogo di culto, sul quale non si hanno notizie certe rispetto a chi la costruì, ma probabilmente grazie ad una sottoscrizione popolare – fatto sta che la croce un tempo era ivi posta era già stata spostata nel 1640 in centro al paese.

La chiesa, come da testimonianza del Terzaghi venne terminata e benedetta il 9 settembre 1663, mentre la proprietà del terreno venne risolta dopo un’aspra diatriba tra Olivetani,Comune e Prevosto.

La chiesa è dedicata a San Gregorio Magno, che viene invocato appunto come protettore dalle epidemie e la sua facciata si presenta con i canoni baroccheggianti, anche se conserva la semplicità, che rappresenta la cifra del luogo: un timpano con al centro il volto di un angelo e scendendo una finestra centrale che sovrasta il pronao sorretto da quattro colonne in granito, sotto il quale campeggiano i due scheletri dipinti che caratterizzano l’edificio (oggetto di ripittura negli anni 70). Sempre sotto il portico si notane due finestrelle che, come in tutti i santuari campestri, permettevano la preghiera dall’esterno quando la chiesa era chiusa.

(Si racconta che l’inverno del-590 fu particolarmente funesto: anche il Tevere a Roma subì una piena particolarmente violenta, che inondò gran parte della città provocando vittime e danni ingenti; ne seguì un’epidemia di peste, che decimò la popolazione. Poiché ancora nell’estate del 590 la situazione non accennava a tornare alla normalità, in una predica Gregorio esortò i fedeli alla penitenza, e per implorare l’aiuto divino organizzò una solenne processione per tre giorni consecutivi. Secondo la tradizione, mentre Gregorio attraversava, alla testa della processione, il ponte che collegava l’area del Vaticano con il resto della città – chiamato allora “Ponte Elio” o “Ponte di Adriano”, oggi Ponte Sant’Angelo – ebbe la visione dell’Arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfoderava la sua spada. La visione  venne interpretata come un segno celeste preannunciante l’imminente fine dell’epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana “Castel Sant’Angelo” e, a ricordo del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in atto di rinfoderare la spada).

Quelli che si osservano all’interno (purtroppo rimaneggiati da un furto negli anni 80) sono quadri realizzati nel 1711 dal pittore Luigi Savione; in verità non sono di pregevolissima fattura e rappresentano i quattro evangelisti Luca (Bue), Marco (Leone), Matteo (Uomo alato) e Giovanni (Aquila) mentre il quadro posizionato al centro della navata raffigura il miracolo di Torino e rappresenta un asino che si inginocchia di fronte all’ostia benedetta. Un altro dipinto  riproduce  San Giuseppe morente mentre in un altro ancora si nota lo spirito Santo che scende su Gesù Cristo.

Originariamente lo spazio centrale sopra l’altare era occupato da un grande quadro dedicato a San Gregorio Magno, ora collocato sulla parete di sinistra dell’aula.  In questa posizione oggi campeggia un affresco voluto negli anni settanta dall’allora parroco Monsignor Ugo Mocchetti: realizzato dal pittore Mario Bogani  raffigura la Madonna che conforta gli ammalati e sullo sfondo si riconosce la chiesa del Lazzaretto.

Sopra l’altare, ai lati della finestra centrale, si possono vedere rappresentati san Sebastiano e San Rocco, due presenze che ritroviamo spesso nelle chiese del milanese, soprattutto San Rocco, anch’esso invocato contro le malattie infettive.

(Arrivato in Italia come pellegrino presumibilmente nel 1367/68, durante le epidemie di peste Rocco andava a soccorrerne i contagiati anziché fuggire i luoghi ammorbati. Durante il viaggio verso Roma ad Acquapendente: su invito di un angelo, Rocco benediceva gli appestati con il segno della croce e all’istante li guariva toccandoli con la mano taumaturgica. Così, in breve tempo, l’epidemia si estinse. Analogamente si comportò Rocco in diverse altre località, dove intervenne per contrastare la peste, occupandosi di malati che, a volte, venivano abbandonati persino dai familiari. Molti di essi guarirono in modo miracoloso. Giunto a Roma, vi rimase tre anni e qui curò, fino ad ottenerne la guarigione, un cardinale. Anche il ritorno da Roma a Montpellier fu interrotto da un’epidemia di peste, in corso a Piacenza. Rocco vi si fermò ma mentre assisteva gli ammalati, venne contagiato; per non mettere a rischio altre persone, si trascinò fino ad una grotta lungo il fiume Trebbia. Le antiche agiografie, a questo punto, narrano che un cane (che tanti artisti dipingeranno o scolpiranno al fianco del santo), durante la degenza di Rocco appestato, provvide quotidianamente a portargli come alimento un pezzo di pane sottratto alla mensa del suo padrone e signore del luogo; che, seguito il cane per i tortuosi sentieri della selva, giunse nella capanna di Rocco. Soccorso e curato dal nobile signore, Rocco riprese il suo cammino. La peste intanto riapparve di nuovo violenta a Piacenza e quindi Rocco ritornò in città sul campo d’azione; debellato definitivamente il morbo nella città e nei villaggi circostanti, esaurito il suo compito, decise di ritornare in patria ma fu ingiustamente imprigionato e morì in carcere a Voghera.)

(Sebastiano visse quando l’impero era guidato da Diocleziano. Oriundo di Narbona ed educato a Milano, fu istruito nei principi della fede cristiana. Si recò poi a Roma. Divenuto alto ufficiale dell’esercito imperiale, fece presto carriera e fu il comandante della prestigiosa prima corte pretoria, di stanza a Roma per la difesa dell’imperatore. In questo contesto, forte del suo ruolo, poté sostenere i cristiani incarcerati, provvedere alla sepoltura dei martiri e diffondere il cristianesimo tra i funzionari e i militari di corte Quando Diocleziano, scoprì che Sebastiano era cristiano fu da lui condannato a morte. Fu legato ad un palo e trafitto da numerose frecce in ogni parte del corpo. I soldati lo credettero morto e lo abbandonarono sul luogo affinché le sue carni cibassero le bestie selvatiche; ma non lo era e guarì miracolosamente. Sebastiano, prodigiosamente sanato, nonostante i suoi amici gli consigliassero di abbandonare la città, decise di proclamare la sua fede al cospetto dell’imperatore che gli aveva inflitto il supplizio. Il santo raggiunse coraggiosamente Diocleziano e lo rimproverò per le persecuzioni contro i cristiani. Sorpreso alla vista del suo soldato ancora vivo, Diocleziano diede freddamente ordine che Sebastiano fosse flagellato a morte, e il suo corpo gettato nella Cloaca Maxima. Nel tragitto verso il Tevere il corpo si impigliò e  fu raccolto dalla matrona Lucina che lo trasportò sino alle catacombe sulla via Appia e ivi lo seppellì.)

Anche la Festa del Lazzaretto, come quella delle altre chiesette nervianesi, ha una caratteristica, riferita all’usanza – in voga sino a prima della seconda guerra mondiale – da parte dei giovanotti di indirizzare un sasso verso la fanciulla per cui spasimavano e l’occasione (visto che non ce n’erano tante per incontrare le ragazze fuori da casa) era proprio quella della festa del Lazzaretto.  Se la giovane accettava l’interessamento, voltandosi verso il “lanciatore” diceva “Ta me cattaa, son tua!!” In questo modo la dichiarazione e l’impegno diventavano pubblici: da questa usanza la definizione, caduta in disuso, di “Festa dal sassett”.

La festa del Lazzaretto probabilmente è stata collocata a fine settembre in ricordo della pioggia che – stando anche al Manzoni – pose fine al contagio. Di certo è che, collocata a quel punto dell’anno va a chiudere la stagione estiva e si è sempre caratterizzata – quasi ad esorcizzare comunque il dolore richiamato dal luogo – per la leggerezza degli eventi a corollario delle funzioni religiose: corsa delle oche, palo della cuccagna, palio degli asini, e ancora… bancarelle, giostre, concerti bandistici, fuochi d’artificio…

Traduzione iscrizione sul portale
Quelli che la peste funesta rapi tra i vivi quando era arcivescovo Federico sono coperti dalla terra di questi campi.
Viandante chiunque tu sia qui sofferma i tuoi passi, qui volgi la tua attenzione qui commisera i tuoi, qui medita su te stesso

Sulla falce dello scheletro di sinistra :
Appartiene solo a Dio conoscere il tempo e la vostra morte
Sull’altra:
State pronti

Testo curato dal Gruppo “Pro Memoria Nerviano”

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